Biografia
Francesco Arata
Francesco Arata nasce a Castelleone il 21 ottobre 1890 da Maria Cattaneo e dal rag. Attilio Arata.
Gli avi di Arata sono di origine ligure, poi trasferitisi a metà Ottocento nel piacentino e quindi a Montodine.
Forse per questa sua discendenza piacentina che lo accomunava a un grande architetto dei primi decenni del ‘900, il cugino Giulio Ulisse Arata, nei resoconti giornalistici delle mostre d’arte a Milano Francesco veniva definito “ il pittore piacentino” .
Ha solo due anni quando il padre muore giovanissimo e la madre, con l’altro figlio Piero, si trasferisce nella casa dei suoi fratelli Cattaneo, dove Francesco trascorre la sua infanzia. Un’infanzia, che come traspare dalle sue memorie, pubblicate nel 1982 sotto il titolo Appunti del mio spirito, deve essere stata serena se non felice, senza particolari ristrettezze economiche, anche se l’immatura scomparsa del padre ha velato di tristezza la vita della giovane madre, tristezza che aleggerà sempre nella casa, negli scritti e nei ritratti dei familiari.
Il relativo benessere nella casa degli zii, Guglielmo direttore, Vittorio e Giovanni impiegati dello stabilimento castelleonese “Manifatture Rotondi”, consente a Francesco di frequentare gli studi superiori a Soresina, e poi nel 1908, con la fiducia dei familiari, di iscriversi alla “Scuola Superiore d’Arte Applicata all’Industria” di Milano presso il Castello Sforzesco, che lo vede allievo brillante, meritevole di medaglie e premi, in prospettiva, in ornato, in composizione, sino ad essere abilitato come professore all’insegnamento del disegno nelle Scuole Tecniche e Normali.
Francesco Arata si iscrive nel 1913 all’Accademia di Brera come “allievo ammesso al modo semplice” in seguito ad esame, e prosegue la frequentazione fino al 1915 come “allievo senza limitazione di corso”.
Resterà a Brera anche come insegnante della “Scuola degli Artefici” dal novembre 1915 al giugno 1916.
Ed è a Brera che Arata ha la fortuna di avere come insegnante quel grande pittore che fu il maestro Cesare Tallone, cui deve il definitivo perfezionamento del suo bagaglio tecnico e il perenne comandamento dell’onestà nell’arte.
La pittura dei primi decenni del Novecento italiano deve buona parte del suo rinnovamento a Cesare Tallone, geniale artista per essenzialità e modernità, per la sintesi post-impressionista dei suoi paesaggi che tanto hanno influenzato i suoi numerosi allievi, non certo inferiori per fama al Maestro, quali Pelizza da Volpedo, Carlo Carrà, Aldo Carpi, Ermenegildo Agazzi, Contardo Barbieri, Achille Funi, Alberto Salietti ed altri.
E’ appena prima di Brera (1912) che Arata viene accolto come aiuto-scenografo al “Teatro alla Scala” con un assunzione extracontrattuale, cioè senza stipendio per il primo anno, come scrive da Milano alla madre e agli zii in una lettera colma d’entusiasmo per questa nuova esperienza che lo pone in contatto, non solo col direttore Vittorio Rota, grande e famoso scenografo del tempo, ma anche con personalità che frequentano la Scala, come Umberto Giordano, Giacomo Puccini, Antonio Lega, Arturo Toscanini. Tutti personaggi che non disdegnano di avere qualche cenno o parola per lui, giovane ed umile pittore venuto dalla provincia per immergersi con coraggio e nascosta ambizione in una Milano che sta uscendo dal suo torpore intellettuale e si apre al futurismo, all’interventismo e ai fermenti della nuova storia d’Europa.
Sono anni di formazione per Arata, in cui consolida il suo bagaglio tecnico con l’insegnamento di Cesare Tallone a Brera, che lo porta a disciplinare le sue molteplici propensioni come il disegno, l’incisione, l’acquarello e le scenografie.
Oggi che abbiamo dinanzi tutta l’opera di Francesco Arata, rileviamo quanto la disciplina accademica abbia contribuito a donagli quella saldezza formale che riscontriamo anche in quadri di minor contenuto artistico e poetico, ma sempre di piena dignità pittorica e di assoluta onestà nel mestiere.
L’esperienza scaligera di Arata, pur se vissuta intensamente come ricorda nei suoi Appunti è di breve durata, due o tre anni, e lascia un segno ben definito nel risvolto tecnico-estetico della sua carriera di pittore: impianto scenografico e saldezza nel vedutismo prospettico saranno sempre una caratteristica dei suoi paesaggi.
E’ forse negli anni di Brera dal 1910 al 1915, dove frequenta anche gli studi di architettura e dove si diplomerà brillantemente professore di disegno architettonico, che Francesco Arata conosce l’architetto Giovanni Greppi con cui instaura un rapporto profondo di amicizia e di stima reciproca, che si rivelerà pregnante per la sua attività di artista.
E’ con Greppi, già affermato architetto, ma anche squisito acquarellista ed acquafortista, che Arata affina queste tecniche che lo portano ad ottenere i primi successi con una mostra dell’Incisione Italiana al Palazzo della Permanente a Milano nel 1915, e con ancor più qualificante partecipazione alla Esposizione dell’”Associazione Italiana Acquerellisti ed Incisori alla “Royal Society of British Artists” di Londra nel 1916 con sei acqueforti 1.
Sono sopraggiunti intanto gli anni della prima guerra, cui Arata non partecipa per l’imperfezione ottica dovuta alla perdita di un occhio in giovane età, ma che lo vede comunque, da acceso interventista come suo fratello Piero e buona parte dei giovani intellettuali del tempo, offrirsi come volontario ed accontentarsi del posto di scritturale in una caserma di Como.
Ci rimangono di quel periodo taccuini fitti di schizzi, di studi su soldati in riposo, di personaggi che la frequentazione di casa Greppi-Labus, ben inserita nell’alta borghesia milanese, gli permette di incontrare e frequentare; e inoltre numerosi acquarelli eseguiti dal vero a Foppolo o in studio su abbozzi riportati dai suoi viaggi a Roma e nella campagna romana dove, come d’obbligo per gli artisti, soggiornò per ammirare i classici.
La collaborazione con l’architetto Greppi che gli ha trasmesso la passione per l’acquaforte, gli acquarelli e l’architettura sembra ancora distrarlo da quella che sarà la sua attività futura e principale.
E’ del 1921 infatti una prestigiosa mostra di architettura alla “Famiglia Artistica” di Milano a cui Arata partecipa con architetti poi divenuti famosi come Giovanni Greppi, Emilio Lancia, Alpago Novello, Cesare Fratino, Giò Ponti, Magistretti, Mezzanotte, Giovanni Muzio, De Finetti ed altri.
La mostra è recensita da Margherita Sarfatti sul Popolo d’Italia, 21 maggio 1921, che argutamente coglie l’unione tra le arti propugnate dai partecipanti: ”Alla Famiglia Artistica” (………) mostra di Architettura. Questa che dovrebbe essere la madre delle arti, ora ne è il madro, la compiacente e non di rado complice ancella (…) qui per esempio, il motivo architettonico funge spesso da pretesto (…) nelle gustose acquarellature di piazzette e case venete, nelle prospettive e modelli di monumento ai caduti di Francesco Arata…”.
E’ tempo per Arata di dedicarsi pienamente alla pittura e forse lo convincono i nuovi orientamenti dell’arte che dominano in Europa e in Italia dopo le avanguardie e il Futurismo. C’è stato, anche se breve, il periodo della metafisica di De Chirico e Carrà ed è a loro che si deve il compito di traghettare l’arte del primo dopoguerra dalle rive agitate delle avanguardie ormai in declino ai più quieti approdi di un classicismo metafisico rivisitato dalla modernità.
Va sottolineato che il clima politico che si va delineando è certamente consono a questo ritorno al classicismo, specialmente in Italia, e non sorprende che Margherita Sarfatti, critico d’arte intelligente e colto, ma anche sentimentalmente legata a Mussolini e politicamente al “Partito Nazionale Fascista”, decida di dar vita a un gruppo di artisti che trasferiscano nella realtà pittorica i principi fondanti della nuova rivoluzione-restaurazione fascista.
Nasce così nel 1922 presso la galleria milanese di Lino Pesaro un gruppo d’arte composto dai pittori Marussig, Oppi, Bucci, Sironi, Malerba e Funi, che pur rappresentando diversi indirizzi artistici, sono accomunati dalla convinzione che le esperienze d’avanguardia avessero fatto il loro tempo e si dovesse battere nuove strade.
E’ il “Novecento”, che pur durando non più di dieci, dodici anni, coinciderà in tutto con l’arte figurativa italiana del periodo in una aggregazione di artisti che toccherà ogni provincia del paese, supportata da un fitto calendario espositivo che si estenderà anche a livello internazionale con mostre di opere italiane a Parigi, Ginevra, Berlino e poi Buenos Aires.
Carrà aveva nel frattempo (1921) dipinto Pino sul mare che resta l’opera chiave per chi con la pittura figurativa voglia cogliere e ricreare la rappresentazione mitica e spirituale della natura. Poche cose, statiche, ben contornate, di intensa silenziosa espressione che inducono al sogno.
E bene ebbe a dire Massimo Bontempelli, nel definire questo nuovo modo di interpretare la natura, realismo magico, estendendo all’arte un suo programma letterario, magia che accomuna lo stile pittorico di un Donghi, di un Oppi, di un Casorati e di un Morandi, per non dire del realismo intimista di Tosi 2.
Francesco Arata, nei primi anni ’20 vede, assimila, riflette sull’opera di questi maestri che a Milano conosce e in parte frequenta, si stacca dal suo retaggio accademico e inizia a produrre opere che lo portano a partecipare a mostre espositive di sempre maggior rilievo.
E’ presente nel ’22 a Cremona in una mostra organizzata da Don Illemo Camelli che, da intellettuale illuminato, chiede al giovane Arata un aiuto per portare in provincia aria nuova nell’arte.
Significativa, per ricordarci le interessanti frequentazioni di Arata, è una lettera emersa dall’archivio storico del Museo Civico di Cremona in cui il nostro suggerì a Don Camelli di invitare anche Fortunato Depero, ultimo dei grandi futuristi con cui Arata esporrà l’anno dopo in una grande mostra all’”Istituto Carducci” di Como, dove tornerà nel 1927 per la “Mostra Nazionale d’Arte Moderna per le Onoranze ad Alessandro Volta”.
Si intensificano le partecipazioni alle “Mostre Nazionali” di Brera e alle “Mostre Sociali” della “Famiglia Artistica” alla “Permanente” di Milano.
E alla fine degli anni ’20 Arata può definirsi artista maturo, dai mezzi sicuri, che del “novecento” ha assimilato i valori e gli ideali, senza coinvolgimento politico, ma tutto teso con dignità, lavoro, perseveranza, a lasciare un segno nella storia dell’arte lombarda.
La sua fatica viene premiata dalla critica in due mostre personali a Milano e a Torino, in gallerie prestigiose, e poi a Novara alla “Galleria Cotroney” dove tra le numerose opere vendute, cinque vengono acquistate e donate alla “Galleria Giannoni”, ora “Museo Civico d’Arte Moderna” di Novara.
Sono nati i suoi capolavori del periodo novecentista, in cui si manifesta la determinata coscienza di volere appartenere allo stile del tempo, come lo commenta Carrà evocando “il desiderio manifesto d’una coerenza”, sull’”Ambrosiano” il 12 novembre del 1929.
E tra i capolavori una serie di nudi di grande perfezione formale e d’estremo rigore esecutivo. E che, come è nell’intento del realismo magico, trasmettono alla gelida realtà degli oggetti comprimari, la brocca e il libro, col perfetto equilibrio compositivo dell’insieme, un senso di mistero, di magia e di richiamo all’arte classica.
Sono anni di lavoro intenso, al cavalletto, in studio e all’aperto, nel suo continuo peregrinare in riviera a Varigotti, a Varazze, a Portovenere e sulle Dolomiti, in cerca di nuovi soggetti senza l’assillo di una committenza che
negli anni a venire, con l’avanzare dell’età e le preoccupazioni familiari, lo vincoleranno ad una pittura più facile, certo gradevole, ma in cui si è affievolito l’impegno intellettuale della ricerca e del confronto.
Si intensifica la partecipazione alle mostre nazionali, su invito o accettazione da parte di commissioni giudicatrici prestigiose, come alla “XVII Esposizione Biennale Internazionale di Venezia” del 1930, o alla prima “Quadriennale di Arte Nazionale di Roma” del 1931.
In questi anni Arata trascorre brevi periodi a Castelleone, ha un grande studio a Milano in via Filippo Corridoni, dove lavora in libertà a grandi nudi e ritratti e riceve facoltosi clienti che finalmente, con i loro acquisti li consentono la piena indipendenza economica dalla madre che, sola, nella vecchia casa del paese (i fratelli erano tutti scomparsi), era vissuta nel ricordo dell’eroico figlio Piero (medaglia d’argento alla memoria) e nel sacrificio di un duro e umile lavoro col cui reddito sostenere il suo ‘artista’ in città.
Arata è al culmine della sua entratura mondana e artistica, anche per la frequentazione del circolo di “Bagutta”, sodalizio artistico letterario fondato nel 1926 da sette promotori tra i quali spiccano i già famosi Riccardo Bacchelli e Orio Vergani, presso la trattoria del sor Pepori dove, attorno ad un tavolo, tra fiaschi di vino e piatti toscani, nasce il primo importante premio letterario italiano che viene ancora assegnato ai giorni nostri. Arata vi entra qualche anno dopo la fondazione del cenacolo, ed è accolto con amicizia stima e rispetto tra gli ‘immortali’ , come li definisce Orio Vergani nell’elenco che qui riportiamo:
“L’elastico Aloi, il mitico Arata, il ridanciano Pieretto-Bianco, l’elegante Bresciani da Gazzoldo, il conscio Anselmo Bucci, il tempestoso Aldo Carpi, il trepido Michele Cascella, il temerario Castelbarco, la materna Cecchi Pieraccina, il placido Bolognesi, il tormentato De Grada, il minuzioso Drudeville, il contento Fiumi, il deciso Lomini, il violento Arturo Martini, l’incantato Cesare Monti, il solido Rosti, il gentile Alberto Salietti, l’estrosissimo Savino Labò, il sottile Pio Semeghini, il dispettoso Soli, il carnoso Ottavio Steffenini, il lezioso Supino, il suntuoso Guido Tallone (figlio di Cesare), il sereno Arturo Tosi, il rigido Vellani-Marchi”.
Questi ne sono i soci, ma altri tra le migliori firme dell’arte e letteratura italiana lo frequentano assiduamente come Malaparte, Guido da Verona, Comisso, D’Ambra, Pitigrilli, Marinetti, Repaci, Monelli, Ponti, Zavattini etc.
Ma “Bagutta” apre ad Arata nuove prospettive, lo arricchisce culturalmente, lo stimola a mettersi a confronto con colleghi più affermati di lui in frequenti mostre Sindacali regionali e nazionali, meritandosi premi prestigiosi, come il premio “Sallustio Fornaia”, e acquisti del comune di Milano di tre opere ora conservate nel museo d’”Arte Moderna” della città.
Nella storia di Arata “Bagutta” segna però un momento ancor più fondante per l’evoluzione della sua pittura, perché è in quel circolo che stringe amicizia e fratellanza artistica e umana con due validissimi artisti come Giuseppe Novello, fine e colto umorista di Codogno che non disdegna di dipingere in modo intimista e post-impressionista alla Bonnard squisiti interni borghesi, e Mario Vellani-Marchi, modenese, artista poliedrico, incisionista, scenografo della “Scala”, illustratore per il “Corriere della Sera” in compagnia di Orio Vergani di un reportage su un viaggio in Africa nel ’33, e pittore già ben accolto dalla committenza milanese, che tra i primi, alla fine degli anni ’20 si scioglie dalla rigidezza e tetraggine cromatica che il “Novecento” ha iniziato a imporre nel panorama artistico italiano.
Arata era già stato più volte a Venezia, sicuramente nel 1920, poi nel 1924 e 1927 come risulta da alcune opere datate, ma la ‘fuga’ verso il colorismo lirico di Burano e della laguna deve essere iniziata nel 1930 al seguito di Novello e Vellani-Marchi e in occasione della prestigiosa ammissione alla “Biennale” di Venezia.
E dopo l’inizio dell’avventura di Burano contrassegnata dal genio di Gino Rossi, col tramite di Pio Semeghini, ecco iniziare la seconda stagione della Scuola di “Burano” con gli amici milanesi di “Bagutta” che si incontrano con i lagunari, e al di là del folklore locale e dei riti gastronomici presso la trattoria “da Romano” si staccano dagli schemi e dalla retorica imperante del Novecentismo.
Arata a Venezia e Burano compie la sua evoluzione paesistica che, se pur sempre legata al tronco lombardo, lo porta ad adottare le tonalità e le trasparenze del colore veneziano, toni e tinte più sfumate, il cieli dei suoi paesaggi sono più tersi e la luce si dilata come se tentasse di conciliare la sua matrice lombarda con lo spirito lagunare.
A Burano, sempre ospite di casa Moggioli, Arata tornerà assiduamente nei primi anni ’30 e anche negli anni a venire, sia per il bisogno di schiarire la sua pittura, sia per partecipare ad altre due “Biennali” di Venezia, nel ’36 e nel ’40, dove ottenne un nuovo lusinghiero successo.
Alla fine degli anni ’20 la cultura figurativa italiana non si esauriva nel fenomeno novecentista, anche se questo rimaneva preponderante, ma a Torino nasceva il “Gruppo dei Sei” con le proposizioni estetiche di Lionello Venturi, a Roma la “Scuola Romana”, a Milano, gravitante attorno all’esteta gallerista e saggista Edoardo Persico, un gruppo di giovani pittori che Borghese nel ’35 definiva “chiaristi”.
Essi sono Angelo Del Bon, Umberto Lilloni, Francesco De Rocchi, Adriano di Spilimbergo, e Cristoforo de Amicis.
Di Del Bon, che è il più anziano del gruppo e certamente la personalità più significativa, Arata è buon amico e ne ricorderà gli incontri in galleria a Milano improntati a grande stima reciproca, in alcune pagine dei suoi ‘appunti’.
Arata non può definirsi chiarista, perché resta più solido, più ancorato alla cultura lombarda, più costruttore nella rappresentazione, ma certamente partecipa ancora una volta al dibattito culturale sul ‘chiarismo’ anche se il suo sguardo è più rivolto verso Venezia.
Francesco Arata torna raramente a Castelleone, tutto presso dagli impegni di pittore a Milano, ma nel 1934 scompare la adorata madre.
Forse nel rimorso di non esserle stato vicino, abbandona la città in cui tornerà solo per partecipare alle mostre e si rifugia nella vecchia casa del paese.
Il ritorno a Castelleone è anche dovuto all’incarico ricevuto come architetto dall’Amministrazione Comunale di progettare il nuovo Municipio di Castelleone, incarico che gli procurò sacrifici e conflitti sul piano umano oltre che su quello progettuale e artistico; vi si mise d’impegno trascurando la sua pittura e la frequentazione degli amici e colleghi di Milano, spinto dal desiderio quasi ossessivo di creare un’opera d’artista che fosse il dono più grande in onore del suo eroico fratello e di sua madre.
L’edificio, inaugurato nel 1935, resterà l’opera più importante e duratura di Arata architetto, significativo esempio in provincia di Cremona dell’architettura del periodo, ben ambientato nel complesso della piazza.
Con la fine degli anni ’30 Arata torna ad essere più sereno, l’animo si sgombera dai tormenti e rimorsi che le vicende famigliari unite ai conflittuali rapporti che le autorità concittadine gli hanno procurato e ritorna con piena vigoria al cavalletto.
Sposa, finalmente, come se necessitasse di quiete e serenità famigliare, l’amata Enrica, con cui formerà una famiglia numerosa, chiassosa, ma che con quattro figlioli gli allieterà la casa buia e triste e gli ridarà la voglia di dipingere anche per le pressanti necessità di guadagno che la prole gli imponeva.
Ha cinquant’anni, non è più tempo di scorribande in giro per l’Italia con gli amici artisti, ma deve produrre con costanza, deve pensare al ‘mestiere’, coltivare buone e facoltose amicizie nel circondario; è sopraggiunta la Seconda Guerra Mondiale, con le paure, le ristrettezze, i razionamenti che certo non conciliano con l’attività di un pittore.
Era però già molto stimato e ben voluto per il suo carattere schietto e leale, per la sua profonda cultura e non gli mancarono clienti assidui e affezionati che lo sostennero, come gli Stramezzi, i Chiappa, i Zuffetti e i De Grazia di Crema, i Negroni di Cremona, i Sorini e Boffelli di Castelleone.
Si tenga presente che in quegli anni difficili rare famiglie, anche se benestanti usavano trascorrere le vacanze al mare e in montagna, ed ecco allora il pittore traslocare con i suoi cari in Val di Scalve, in Val Taleggio, a San Giovanni in Bianco, in Riviera Ligure alle Cinque Terre o a Sestri Levante, da cui tornava con una ventina di tele ogni volta, tutte eseguite di getto dal vero.
Erano vedute fresche di stesura chiara e leggera quasi acquerellata, post-impressionista, in cui risaltava tutta l’esperienza e la maturità tecnica accumulata, senza le contorsioni intellettuali degli anni precedenti, che tanto piacevano ai clienti, i quali non disdegnavano di portarsi a casa un pezzo di montagna o di mare del loro amato pittore.
E si moltiplicarono le vedute del suo paese, della sua amata campagna, e fu il periodo di numerosi ritratti alle dame di Crema e Cremona, e il più fecondo per le nature morte.
Arata aveva conservato uno studio a Milano, questo in via Rossini 3 in un palazzo di proprietà del conte Premoli, che frequentava saltuariamente, per non rompere definitivamente i rapporti con “Bagutta” e la cultura milanese, e vi avrà visto sorgere nuove idee, nuovi fermenti artistici antinovecentisti, come “Corrente”, numeroso gruppo di giovani artisti: Renato Guttuso, Arnaldo Badodi, Renato Birolli, Ennio Morlotti, Aligi Sassu, Giuseppe Migneco, Bruno Cassinari e altri.
Durante la Guerra tornando dal periodo di lavoro sulle montagne in Val Taleggio o a Vilminore, lasciata proseguire verso casa la famiglia, si fermava qualche giorno sul lago d’Iseo, a Sensole, dove trovava quale grande pittore, Arturo Tosi, il suo “ideale”, che in una lettera alla famiglia definirà “il più bel paesista italiano”.
Tosi era per gli artisti lombardi un novello Cezanne e non sorprende che Arata trovi gli stessi spunti di ispirazione nei luoghi che il grande maestro frequentava, il Sebino, la Riviera Ligure, e le valli bergamasche.
Guardando Tosi, Arata rimane fedele anche nel dopoguerra di fronte agli incalzanti modernismi, alla sua pittura naturalistica, alle sue atmosfere terse, ai paesaggi puri e severi, ai cieli profondi e dilatati.
Quanti paesaggi negli ultimi anni del suo operare in cui, anche se la salute cominciava a declinare e le ristrettezze economiche per il mantenimento della famiglia numerosa devono averlo assillato, profondeva tutta la sua sensibilità e la sua poesia nonché la gioia per la bellezza e il mistero della natura.
Francesco Arata muore nel suo paese il 3 marzo del 1956, nel cordoglio sentito dei suoi concittadini che lo onorano commossi con le esequie pubbliche a negozi chiusi; Castelleone ha perso il suo pittore.
Dalla sua morte sono trascorsi più di cinquant’anni, molte retrospettive sono state allestite a Milano, Cremona, Crema, Piazzola sul Brenta, Venezia, che senz’ombra di dubbio hanno contribuito a farlo conoscere ed apprezzare oltre i confini della nostra provincia per la sua arte sincera, profonda e sofferta. Ma ciò che ha sempre colpito emotivamente i critici, i collezionisti e gli estimatori è l’amoroso ricordo, quasi fosse un mito, che tutti hanno per Francesco Arata uomo e pittore.
GianMaria Arata e Claudio Toscani
Estratto da “Insula Fulcheria Volume B – Storia – Saggi – Ricerche” Dicembre 2007
NOTE
1 Catalogo dell’Esposizione dell’ ”Associazione Italiana Acquarellisti ed Incisori alla “Royal Society of British” di Londra. 1916” . Arata espone 6 acqueforti accanto ad artisti come Carlo Paolo Agazzi, Ernesto Bazzaro, Giorgio Belloni, Romeo Bonomelli, Anselmo Bucci, Carlo Casanova, Ludovico Cavalieri, Conconi, Adolfo De Karolis, Cressini, Benvenuto Disertori, Vittore Grubicy de Dragon e Giulio Aristide Sartorio
2 L’espressione “realismo magico” compare anche nel 1925 nel titolo del saggio, Postimpressionismo- Realismo magico. Problemi della nuova pittura europea, dello storico dell’arte tedesca F. Roh, Le Garzantine Corriera della Sera, 2006, vol. 8, p. 1021.